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Noi e il digitale: la sfida del riconoscersi ancora

Stiamo assistendo all’avanzata poderosa del digitale nella nostra vita. Non solo nell’ambito delle comunicazioni, fatto già pacificamente assodato, bensì anche nella gestione della quotidianità. Non sfugge infatti a chi si occupa di digitale che lentamente, ma inesorabilmente, cresce lo spazio che il virtuale occupa nelle nostre esistenze.

Ma è impossibile non soffermarsi sulla pervasività di questo processo espansivo, sostenuto da un crescere costante e diversificato di esigenze umane e professionali. Ho iniziato a rifletterere su questo meccanismo, di cui a occhio nudo si possono intravedere i passaggi, dopo aver letto l’articolo ”Novacene: Lovelock e l’Era dell’Intelligenza Artificiale” del giuslavorista Marco Proietti sul sito di ‘Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine’.

Il digitale siamo noi

La riflessione prende spunto dal cuore pulsante del libro “Novacene: l’età dell’iperintelligenza” dello scienziato e scrittore britannico James Lovelock. L’estensore invita a ragionare sulla sfida che l’uomo dovrà affrontare per poter essere ancora artefice del proprio destino, seppur in un panorama di intelligenza artificiale imperante.

Proprio questo concetto mi ha portato a voler approfondire la dinamica e, se possibile, ad ampliarla verso un approdo ulteriore. Seguendo il percorso di tutte le grandi innovazioni umane, il digitale si plasma su di noi, costruendo una nuova piattaforma valoriale parallela a quella su cui poggiano da sempre i nostri comportamenti. Ed è qui che inizia una sfida tutta interna all’essere umano.

Quella del riconoscersi ancora. Il destino dell’uomo oggi si gioca su più fronti, primo fra tutti quello del mantenere una propria identità fisica e decisionale, che prescinda dalla dimensione digitale o ne sia compartecipe. La pandemia tuttora in corso ci ha mostrato, probabilmente in parte ancora esigua, il potere totalizzante della comunicazione digitale.

Il potere della reminiscenza

Se il digitale corre veloce, sospinto oggi anche da circostanze storiche contingenti, l’uomo deve rinvigorire il potere della reminiscenza. Ricondurre i frammenti del ricordo ad unità costante, affiancare un contromovimento fisico all’espansione digitale. Perché il digitale ha potenzialità enormi per la crescita dell’umanità, ma per essere valore aggiunto ha bisogno di un contrappeso ”umano”.

Di una costante e intensiva attività di riconoscimento fisico ed emotivo, che non passi necessariamente da un display. Si pensi ai rapporti umani mediati dai social, per esempio, dove spesso nascono conflitti che solo in quell’ambito possono trovare genesi. Mentre nella vita reale avrebbero probabilmente preso la forma di un dialogo o di un confronto.

Seppure la dimensione digitale ha permesso il mantenimento di legami grazie alle potenzialità comunicative dell’immagine, certo è che al più presto va recuperata la piena operatività fisica ed emotiva. L’uomo deve tornare a riconoscersi e a riconoscere la geografia umana che lo circonda.

L’esperienza, la differenza

Ragionamento questo che le nuove tendenze di marketing hanno già da tempo messo in piedi, seppur con presupposti e fini diversi, puntando (non solo) sul concetto di experience. Sul mettere in evidenza l’esperienza di un prodotto, le sensazioni positive che il suo utilizzo può suscitare. Dal prodotto in sé alla dimensione emozionale collegata al prodotto acquistato.

Segno che sotto traccia l’uomo è portato a fare sempre e comunque affidamento sul proprio bagaglio interno, su ciò che pur mediato da un display o da un totem pubblicitario tende a fare per lui la differenza. Per questo il digitale siamo noi, e possiamo ancora riconoscerci reciprocamente come umanità distinte e non randomizzate. Come entità di scelta e di autonomia, di potere intellettivo espansivo oltre le strette maglie di un sistema operativo.

Photo – Pixabay

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